Dice così M.Harner, uno dei padri moderni del concetto di sciamanesimo urbano (che lui chiama core-shamanism), nel suo libro La caverna e il cosmo: “Presupposto fondamentale dello sciamanismo è l’esistenza di due realtà, la percezione delle quali dipende dallo stato di coscienza”.
Mi permetterei, con un po’ di arroganza, una modifica della frase: “Presupposto fondamentale per vivere lo sciamanismo, è sperimentare l’esistenza di due realtà …”
Credo infatti che coloro i quali si accostino all’epos degli antichi europei per abitarlo dall’interno, non possano non accogliere questa modalità di viaggio, se non vogliono limitare la propria ricerca a semplice archeologia. Fare Sciamanesimo, nel senso di viverlo portando avanti con originalità e dedizione un mondo estinto solo in apparenza , è oggi ancora possibile. Ma tale possibilità è tutta racchiusa nell’accoglienza, sperimentazione e verifica di quanto affermato. Per vivere l’appartenenza – che fu propria dei nostri padri – alla celebrazione del potere della vita, è quindi strettamente necessario che ci rapportiamo ad una duplice realtà: pratica, razionale e discriminatoria l’una, simbolica, magica e relazionale l’altra. Ma se per gli antichi esse coesistevano in un medesimo atteggiamento di vita, per noi moderni, abituati come siamo ai postulati della scienza e della tecnica e al primato dell’economia, i rischi sono di due tipi: ridurre il mondo al dominio di un’unica realtà possibile (trasformando l’altra in ricerca accademica, magari un po’ nostalgica) oppure saltabeccare in maniera schizofrenica tra di esse, mantenendole rigorosamente separate in quanto antitetiche. Credo che la salvezza possibile per l’uomo contemporaneo, risieda nell’eredità del pensiero antico, ovvero nella riappropriazione autentica dei valori del “cerchio”, a partire dalla sperimentazione dell’”appartenenza” come stile di vita.
Il mondo sociale dei popoli nativi si riconosceva pienamente nel gruppo, il quale, anche se assai spesso contrapposto, duramente e mortalmente, con le vicende storiche degli altri, rappresentava pur sempre una realtà collaborativa di natura imprescindibile: mentre l’azione del singolo si profilava sull’orizzonte del gruppo, l’azione del gruppo riconosceva il singolo nel suo statuto personale e nella sua unicità. Il gruppo poi, trovava la propria legittimità, il proprio riconoscimento, nella lettura ed interpretazione dei miti, nel ricordo e rievocazione dell’epos, cui facevano riferimento i grandi cicli cosmici, nella loro natura spirituale e conseguente rappresentazione rituale. Nel mondo odierno non c’è più niente di paragonabile. L’esasperata condizione individualistica confina nell’isolamento il cammino di sviluppo di sé. Ci si abitua a fare da soli, a confidare esclusivamente in noi stessi, a diffidare degli altri e considerare il mondo e gli esseri che lo abitano, come terreno di conquista e sfruttamento, nell’ottica del più bieco antropocentrismo. L a dimensione spirituale o finisce per collocarsi in una dimensione intimistica strettamente privata, oppure semplicemente si dissolve in visione pragmatica dell’esistenza. Il mancato riferimento ad un orizzonte storico condiviso, fa ripartire continuamente l’orologio degli avvenimenti da un fatidico “qui e ora”: ogni problema è unico ed accade solo a me, in questo momento, e per la prima volta; la sua soluzione dovendo ricadere inevitabilmente su di una prospettiva di fortuna/sfortuna. Viceversa, le celebrazioni cicliche e annuali dei grandi avvenimenti, sviluppavano, in ogni uomo e donna del clan, la consapevolezza di far parte di un grande orizzonte spirituale, che ne sanciva il diritto all’esistenza in un’ottica di cammino condiviso. Il racconto rituale, reciprocamente memorizzato, dei miti fondativi e delle gloriose azioni degli antenati – il confronto quotidiano con le prove dell’esistenza – temprava la libertà individuale e la indirizzava ad una ricerca continua di spazi operativi. Contrariamente a quanto si possa credere, la libertà, per gli antichi popoli celtici, non era affossata dal determinismo di un fato insondabile e tiranno, e neppure vanamente protesa, come il libero arbitrio ci insegna, al raggiungimento di una prospettiva anarchica senza finalità. Come dice giustamente B.Bates: “Per le popolazioni tribali dell’Europa antica la vita era un compromesso continuo tra la componente libera e quella prestabilita. Quando oggi diciamo che qualcosa ‘era destinato ad accadere’, non siamo consapevoli dell’immagine che evochiamo con quella espressione. Con quella frase intendiamo dire che la somma dei fattori concomitanti in una circostanza, conduceva quasi inevitabilmente a un esito particolare. Ma quella frase ha radici antiche e nell’epoca del Wyrd veniva impiegata con una intenzione più precisa. In ogni momento della vita siamo repressi e limitati dai molti ‘vincoli’ che poniamo a noi stessi, che noi stessi abbiamo istituito, stringendoli e avviluppandoli attorno a noi, durante la nostra esistenza. Essi ci limitano, menomando la nostra capacità di affrontare le questioni che abbiamo dinanzi. Concentrando la nostra attenzione sulla natura vincolata degli aspetti della nostra esperienza psicologica, possiamo formarci un’immagine psicodinamica. Concepire le forze psicologiche come legami o impedimenti serve a ricordarci che per ottenere un ‘cambiamento’ nella nostra vita, spesso dobbiamo non solo aggiungere qualcosa di nuovo, ma anche sciogliere o recidere i vecchi legami che ci impacciano. Identificare, rimuovere, spostare o modificare questi ostacoli, per quanto possa apparire un’azione tenue e banale, è la base della libertà personale”. [B.Bates – La sapienza di Avalon].
Per questo motivo il lavoro di gruppo, nel vivere quotidiano associato (anticamente quello di un clan o di una tribù, o, nel presente, di un qualsiasi gruppo di persone che stabiliscano tra di loro i termini operativi di un percorso di crescita) consente, attraverso l’iterazione di un complesso gioco di specchi, di individuare più facilmente i vincoli in cui siamo avviluppati , e che da soli faremmo fatica a scorgere, e reciderli, col sostegno del gruppo che amplifica, modula e adatta la forza applicata individualmente, attraverso il recupero della memoria/saggezza del collettivo.
In tanti anni di ricerca sciamanica, mi rendo conto che ciò che di più profondo e sacro ho cercato di trasmettere, dopo averlo mutuato e compreso dalla tradizione dell’Antica Europa, è un sistema relazionale fondato sull’appartenenza.
Un vocabolario può chiarirci meglio il significato sociologico di questa parola: “studiato in riferimento alla relazione tra l’individuo e le varie forme di azione collettiva. Se per un aspetto l’appartenenza contribuisce a definire i confini e la struttura di un dato sistema sociale, sia esso gruppo, associazione, movimento o Stato, essa è rilevante anche per collocare il soggetto in una specifica posizione sociale, secondo specifiche caratteristiche di status e di ruolo”.
Il primo riferimento che emerge è dunque tra individuo e azione collettiva. Possiamo ben dire che l’appartenenza scava il recinto operativo, appronta il campo di battaglia, dimensiona i confini e la struttura, in cui l’Essere, forte delle istruzioni originarie possedute – le regole di ingaggio per così dire – ricevute da ognuno di noi al momento di partecipare a questo viaggio memorabile che è la vita (di cui si dimostrerà spesso assai poco consapevole), si sperimenta nel Fare (creando cioè quelle sinergie, affinità ed alleanze, tra coloro che si riconoscono all’ombra dello stesso vessillo). È l’appartenenza a legare al branco lo spirito del Lupo. È l’appartenenza che spinge un intero clan (vedi il film “l’ultimo samurai”) a non voler sopravvivere al tramonto dei propri valori condivisi. Ed è ancora l’appartenenza, infine, a muovere le funzioni specifiche di status e di ruolo, che ci introducono al secondo aspetto significativo contenuto nella sua definizione: quello tra soggetto e posizione sociale. Non si tratta infatti di un’inclusione generica e aspecifica, ma tesa a valorizzare pienamente i “titoli” con i quali stare nel gruppo, cooperare con il gruppo, servire il gruppo per esserne serviti. Camminiamo infatti da soli i sentieri della nostra vita, ma ci qualifichiamo nel gruppo, assecondando azioni collettive cui forniamo l’apporto insostituibile della nostra Medicina. A volte mi chiedo, tra i due aspetti sopra citati, quale sia il più difficile da conseguire. Dopo tanti anni di verifica di esperienze, non ho alcun dubbio sulla risposta: chiaramente il secondo. Si può infatti innamorarci rapidamente dei termini di un’azione collettiva, ma è assai più complesso sviluppare il nostro ruolo all’interno di essa. L’ideale arde di passione e di entusiasmo e, proprio per questo, può consumarsi in un attimo se non esiste, dirimpetto, l’azione gregaria, oscura, non eclatante, perseguita quotidianamente con costanza e fatica, alimentata a prescindere da successi o insuccessi, un passo alla volta. Se si entra in un progetto affascinati dal risuonare delle sue vibrazioni nel nostro animo, ma si rimane confinati in un limbo di provvisorietà generica, la spinta progressivamente si consuma. Tutto il senso di appartenenza che si era manifestato, quasi nei termini di un miraggio, nel tempo si illanguidisce ed affloscia, non essendo adeguatamente alimentato dai significati operativi riconosciuti all’interno della propria prassi di vita. L’appartenenza sboccia da un’idea sublime, spesso anacronistica, ma se non può nutrirsi di prassi quotidiane o almeno frequenti, conoscenze interiori senza barriere, condivisioni di vite, storie allo specchio, decade assai presto in utopia e si sfilaccia nel sacrario di un ricordo divenuto ormai sterile e vuoto. I popoli nativi Europei, anche se litigavano ferocemente tra di loro – come cani e gatti – si riconoscevano idealmente e operativamente all’interno di un’appartenenza, sancita sul piano spirituale, ma confermata e corroborata, giorno dopo giorno, ciclo dopo ciclo, dalle otto feste-celebrazioni, in cui ci si muoveva su due livelli, sociale il primo come riconoscimento e confronto, individuale il secondo, dove il singolo era chiamato ad armonizzare il proprio percorso di consapevolezza interiore con le leggi dell’universo, in un ciclo di continuo perfezionamento ed avvicinamento all’Own, il centro invisibile del disco cavo, nelle sue tre forme visibili: La Conoscenza, la Forza e l’Amore.
Merlino per i Viandanti del Sogno