Possediamo due forme di conoscenza: una solare, logica, razionale (della serie due più due uguale a quattro, per intenderci), tagliente come una lama, che persegue presupposti di verità; l’altra crepuscolare, analogica, intuitiva, avvolgente come un gomitolo, e come tale spesso intricata, che si approssima invece al verosimile. Tuttavia, in una società come la nostra, solo la prima acquisisce effettivo statuto di conoscenza visto che l’altra, portando con sé mistero ed incertezza, genera sospetto e pregiudizio. Un famoso aneddoto mi permetterà forse di chiarirmi meglio. Sotto la luce vivida del sole, ogni oggetto mostra distintamente le proprie caratteristiche, niente di più o di meno di ciò che è. Facile distinguere pertanto un pezzo di corda abbandonato sul prato da un serpente avvolto su se stesso. Nessuna contraddizione, dato che A (la corda) è ben diverso da non-A (il serpente). La vista mi permette di effettuare un accertamento esatto e rapido, già a una certa distanza, senza correre pericolo alcuno. Ma se spostiamo le lancette dell’orologio in avanti di qualche ora, possiamo constatare che, scendendo il crepuscolo, quando la luce si fa più incerta, il medesimo riconoscimento – se voglio salvaguardare la mia zona confort – diviene assai più problematico. Nel caso di modalità più temerarie, avrò il cinquanta per cento di probabilità di afferrare una serpe piuttosto che una corda. Una verifica si imporrebbe, ma questa sarebbe più in linea con la modalità razionale, quella che non vuole correre rischi ma, al tempo stesso, non osa neppure sfiorare il mistero.
Gli Antichi amavano il crepuscolo, dove le forme si fanno incerte e l’esattezza ipotetica. I loro riti iniziavano sempre al calare del sole, per abbracciare meglio il mistero nelle sue espressioni variegate. Così, ad esempio, le celebrazioni della Ruota del Tempo salutavano con Samhain, l’ingresso nel lato oscuro dell’anno. Nello stesso modo in cui la rigenerazione che si ricercava nel rito della Capanna del Sudore o il vaticinio che veniva richiesto alla Sibilla, avvenivano nel buio antro dove più facile era contattare la Madre: la nostra interiorità. Sciamanicamente parlando, il colore del buio, il nero (o meglio l’assenza, in esso, di ogni colorazione), lungi da facili superstizioni, rappresentava l’istante che precede ogni atto creativo o ricreativo, e il calendario dei nostri antenati europei, I Celti, era in realtà un lunario, prevedendo il susseguirsi di tredici cicli.
Per tornare all’esempio di prima, procedere verso un progressivo affievolimento della luce diretta (sia reale che metaforica), comporta fare I conti con un grado elevato di incertezza e approssimazione, che richiede pertanto di privilegiare strumenti ‘crepuscolari’ di conoscenza: com’è appunto la “visione periferica”.
Il nostro campo visivo abbraccia un arco di cerchio di circa 180 gradi, ma la visione diretta e nitida degli oggetti si avvale solo della parte centrale di questo, mentre le due porzioni periferiche consentono solamente di cogliere immagini sfocate, più intuite che certe, dettagli presagiti che possono aggiungere particolari al quadro d’assieme, ma non sostituiscono la vista vera e propria degli oggetti osservati. In altri termini, la nostra conoscenza solare relega ai margini quella crepuscolare facendola ricadere in una dimensione opinabile. Possiamo testimoniare di aver veduto, solo quando la scena si mostra luminosa e centrata, altrimenti, la sola successione delle forme intraviste, come guizzi improvvisi, popola di fantasmi cangianti la visione del mondo.
Tuttavia, è proprio all’interno di questa dimensione crepuscolare, nell’interregno che si profila tra il visibile e l’invisibile, che si schiudono le porte magiche e transitano, attraverso di esse, nella nostra percezione amplificata, le figure fatate dell’Altromondo. Quella che lo Sciamanesimo chiama magia, assume allora i contorni funzionali di un allargamento della realtà al di là dei limiti imposti dagli aspetti razionali dell’esistenza. Sono proprio I territori di confine, quando le regole che separano il possibile dall’impossibile si attenuano fino a mischiarsi, dove A e non-A possono avere accesso paritario al piano della manifestazione, quelli in cui può darsi l’apertura di un portale. È possibile esplorare intenzionalmente questa zona franca, spostando l’attenzione dal centro alla periferia. La visione sfocata blocca la percezione automatica della realtà valorizzandone le frange aliene, e consentendo di poter cogliere di fatto possibilità residuali. In natura, queste condizioni si realizzano nel passaggio tra gli elementi: la battigia, per esempio, luogo di trapasso tra la terra e l’acqua, o la sottile pellicola che separa e unisce tra di loro l’acqua e l’aria. Nello stesso modo, il confine virtuale tra il margine estremo del mio campo visivo e lo spazio invisibile che da esso procede, consente il passaggio, fulmineo e imprevedibile, che intride di incertezza le estreme propaggini della retina, a ciò che esula dalla dimensione solare e cognitiva. Il gesto dell’accoglienza di siffatti fantasmi riguarda il mondo della contemplazione, che prescinde dallo spazio e dal tempo. Uno degli esercizi più semplici e propedeutici che proponiamo a Casaruota è quello della contemplazione di una candela accesa. Non della fiamma intendiamoci, e nemmeno del sottile stelo di cera, ma del regno intermedio tra i due (lo stoppino). Lì, tra il non più e il non ancora, si superano le leggi che regolano, nella loro diversità, la condizione del fuoco come quella del suo combustibile. Da quella piccola terra di nessuno, luogo sovrano di magia elementale, umilmente apprendiamo ciò che lega ogni evento in un tessuto di contiguità.
Merlino di Casaruota