Questa storia è una storia infinita, perché parla di cicli. E i cicli richiamano alla mente, se li lasciamo liberi di fluire, una successione di avvenimenti talmente stupendi da renderli per questo memorabili. E i cicli sono l’equivalente ritmico di una danza di ringraziamento che ogni essere innalza, quotidianamente, nei suoi modi segreti e imprecisati, allo Spirito di tutti. Vista in questo modo, anche la nostra vita diviene danza, incastonata com’è tra le sue stagioni, e così avviene per il cammino del sole nelle sue fasi. Ma stasera il mio racconto è più intimo e segreto – quasi sottotraccia – e coinvolge la danza notturna di tredici lunazioni, di cui l’antico bardo Amairgen ci ha lasciato memoria, dopo averle solcate, ad una ad una, con le sue incarnazioni. La luna di stasera, quella stessa che splendeva in quella antichissima notte, è la prima della serie, la luna di Samhain…La Luna della Scogliera.
Primo Quadro: il Richiamo
Questa storia nasce per metà dall’esperienza, e per metà dal sogno, poiché il sogno è l’esperienza che verrà. E se ora vi chiedo di visualizzare una scogliera qualunque, voi saprete già che è qualunque per gli altri, non per voi che l’avete sentita risuonare nei ricordi per così tanto tempo. La storia ha come sfondo una notte di luna, quasi piena, come questa in cui la racconto. Un buco bianco nel firmamento oscuro, a suggerire un oltre, un generico più in là, cui accostarsi furtivi – quasi fosse per spiarci attraverso – con la paura celata che qualcuno possa sorprendervi, con il cuore sospeso, a sondare il proibito.
E questo per la luna può bastare. Altra cosa invece la Scogliera. La scrivo con la maiuscola perché la vedo mediamente imponente. Bastione torreggiante, compatto e nero, spartito tra un “di qua” e un “di là”; reso falsamente omogeneo dal buio, ma, come il rincorrersi delle pieghe nel velluto, capace di improvvisare una sorta di più e meno nero, che possa restituirci il senso della profondità e della mutevolezza. Su tutto quanto, svetta, severo ed implacabile, il boato: la riproduzione sonora, selvaggia e indomabile, della spallata di un gigante di spuma sopra il corpo squassato di un gigante di pietra. Come fai a non sentirti piccino, come puoi non provare almeno una parvenza di timore, strettamente mischiato col più muto rispetto, che rimandi a un futuro, inspiegabilmente prossimo, il bisogno di raccontare.
Perché, è evidente, al centro di ogni storia c’è l’urgenza di una trasmissione, la fedeltà dovuta ad un ricordo potente. Al centro della storia di noi viaggiatori c’è un’eredità da condividere, e quel suono cupo e profondo che fa tremare la roccia e arde al tempo stesso nel nostro cuore, quel suono arcano che ha impregnato di urla le nostre notti, è, di fatto, un segnavia, un richiamo dell’Altromondo a disdegnare l’oblio, a mantenere aperti, dopo averli intagliati nel ghiaccio e levigati nel vetro arabescato, i nostri occhi.
Secondo Quadro: la nostalgia del profondo
La storia prevede, a questo punto, la manifestazione di due spiriti in forma animale. E il primo è la balena. Perché se la barriera, illuminata dalla luna, e sottoposta a quell’eterno frangersi dell’onda, suggerisce la trama di un ritorno, allora la balena, su questo scenario, manifesta la memoria stessa dell’abisso che tutto contiene e in cui tutto è contenuto, e il suo suono, ancestrale e inenarrabile, esercita il richiamo di una tradizione che si specchia nell’eternità e guida al loro destino le carovane degli uomini.
Grande essere la Balena. Essa si attarda sul fondo per rigenerarsi contemplando la solitudine, per poi salire in superficie, a condividere, nella visibilità del suo sbuffo, i tesori che ha raccolto. Il suo canto, che è il ritmo stesso dell’oceano primordiale, richiamo di tutto ciò che ci attrae per la sua familiarità e ci impaurisce perché così alieno, conserva sia la conoscenza delle profondità sia il segreto dell’inizio dei tempi, e ci dona l’estro di percepire la voce degli spiriti.
Possiamo adattarci a vivere di superficie, circondarci di sicurezze e navigare a vista, se lo vogliamo, sentire a poco a poco inaridite le nostre fonti a cospetto dei molti volti della paura, ma arriva sempre il momento in cui la più piccola discontinuità, il dubbio più insignificante, può spalancare davanti a noi l’abisso.
E nell’abisso nuota la Foca – il secondo Spirito animale di questa storia – che sembra sorriderci mentre ride di noi, portando in equilibrio sulla punta del naso, da giullare impareggiabile, ciò che ad ogni passo sembra farci irrimediabilmente cadere. Se la Balena ricapitola l’immenso, scatenandolo all’improvviso sul nostro orizzonte visivo, sorella Foca ci insegna a viverlo, sullo scoglio, nella sua quotidianità, fatta di fede, piccoli passi goffi ed impacciati, e gesti allusivi appena abbozzati. Solo allora, giunti alla soglia del mare, nell’esatto momento che prelude ad ogni slancio, potremo forse incontrare ciò che più intimamente ci appartiene, al di fuori di limiti che non abbiamo, di una pelle che non è nostra, di abitudini petulanti: la nostalgia infinita dell’anima.
La Foca ci porta il ricordo struggente di aver vissuto altrove, nel cuore pulsante dell’indiviso…
”fratello mio, sorella, una parte della tua anima è prigioniera, ma oggi, dal suo carcere segreto, essa avverte il gemito malinconico delle origini far breccia nel cuore, per renderti straniero a ciò che ti è estraneo. Possa tu assecondare la profezia della tua nascita senza temere l’ampiezza sconfinata del mare”.
Terzo Quadro: la propagazione
Gli Antichi collocavano l’Altromondo sulle molte isole alla fine dell’Ovest. Fare rotta verso di esse non corrispondeva in nessun modo, per loro, all’avverarsi di un fato maligno, e se vi invito questa sera a salpare con me sull’antico sentiero dei delfini, non avrete bisogno di scongiuri, ma di far vela verso l’incredibile vastità dei sogni che infinite leggende umane hanno narrato. Questo l’ultimo quadro che vi offro in questa celebrazione infinita: una notte incantata, pregna di stelle, mollemente adagiata sul balcone degli eventi, sotto il riflettore di una complice luna.
E noi, i pellegrini dell’eternità, in piedi, sul legno vissuto dell’agile barca, cinti da sottili creste di bianca spuma.
Noi, i sopravvissuti al logorio di ogni appartenenza, gli arresi alla successione adamantina delle sabbie del tempo. Liberati finalmente d’ogni rimpianto o pena. Ho visto più e più volte questa scena serena. Ci ho visti solcare quell’onda come esseri purificati, cantastorie viventi di esperienze e storie singolari, ed ho avvertito potentemente il fremito che animava quel transito, nemmeno lontanamente paragonabile alla rassegnazione dell’abbandono, ma teso, nella brezza marina, a cogliere il sentore di nuovi aromi e rinnovati guadi, nel succedersi dei mondi. L’Antico Credo.
Noi, le braccia aperte, le mani tese a sconfiggere il buio con una nuova Aurora. E mentre il primo tenue bagliore tradisce sorridente l’epifania della riva, il nostro spirito rende feconde queste vie d’acqua, e feconda la distesa del vasto oceano, e feconda e trasmissibile, infine, la memoria che, delle nostre gesta, avrà la Vita.