Segare il ramo al quale siamo appesi, non appare una grande idea. Eppure è quello che noi umani stiamo facendo al pianeta, nell’illusoria convinzione che, in qualche modo, per il momento oscuro, la tecnologia possa infine trovare un rimedio alla situazione, tale da consentirci di mantenere privilegi e comodità inerenti il nostro status antropocentrico. Soprattutto, un’umanità che si riconosce antagonista di genere, laddove sinergia e coesione costituirebbero l’unica speranza di salvezza, complica terribilmente una speranza di vita già ridotta al lumicino. Stabilito che maschile e femminile sono mondi diversi, e, in quanto tali, spesso divengono meteore in rotta di collisione, rimane da sondare fattivamente la possibilità che questa diversità possa costituire, anziché un limite strutturale e ineludibile, una risorsa preziosa ai fini della sperimentazione di una cooperazione proficua … la cui esistenza peraltro il nostro passato europeo ha già veduto.
Si tratta dunque di recuperare una memoria, sopita ma non perduta, grazie alla quale provare a reimpostare una forma equilibrata di convivenza, a beneficio del pianeta e dei suoi ospiti. L’idea che abbiamo del Paleolitico – cinquantamila anni fa – ma persino del Neolitico (appena diecimila anni prima di Cristo), appresa sui banchi di scuola, ma, più in generale, di tutto quanto esula da quei pochi millenni di storia scritta, impressa dalle civiltà antiche su tavolette incerate o altri supporti, è che l’uomo di allora non poteva che essere una sorta di bruto, peloso e deficiente, preda di istinti superficiali e del tutto esente da attitudini interiori, abilità artistiche e pensieri profondi, magari persino di natura spirituale. Una sorta di animale, dunque, perfettamente allineato con i termini dettati dalla legge del più forte. Vero esattamente l’opposto, perché trentacinquemila anni fa quest’uomo affrescava le pareti delle grotte e, all’apice della sua industria, collocata tra sette e tremila anni prima di Cristo (oggi lo sappiamo dall’enorme mole di reperti archeologici che continuano ad emergere un po’ ovunque, nel bacino mediterraneo, ma anche nel nord), faceva parte dell’Antica Europa, una cultura “mutuale o gilanica” – cioè non patriarcale ma nemmeno matriarcale – in cui tra i sessi esistevano rapporti di natura collaborativa. Questo sistema diffuso era prevalentemente agricolo, dedito al commercio e pacifico (gli antichi insediamenti non avevano mura di recinsione), retto da una religione di tipo naturalistico, centrata sul culto di una Dea Madre della Terra, Signora della Vita e di tutti gli esseri viventi, Reggitrice della Morte e della conseguente Resurrezione, intesa come trasformazione evolutiva. Alla Dea era associato il ciclo lunare e, per stretta analogia con le sue fasi, la morte veniva a costituire nient’altro che un evento necessario alla rigenerazione della vita. Ciò accadeva nello stesso sviluppo vegetativo, dove il seme, dal cui sviluppo dipendeva la sopravvivenza di questi antichi popoli contadini, dischiudeva, nella stagione invernale, la speranza per la nuova fioritura. Se dunque la Dea personificava, fino dal Paleolitico il principio eterno della vitalità, uguale a se stesso ed auto-generativo (per partenogenesi, visto che i meccanismi fecondativi non erano evidenti), solo in un secondo momento il suo compagno cominciò a rappresentare il ritmo stagionale della natura, perché era logico e appropriato che a morire fosse la divinità maschile/vegetale, che sarebbe rinata l’anno seguente e che era decisamente minore rispetto all’onnipotente deità femminile/creatrice. Le nozze sacre (ierogamia) tra la Dea, eterna e immutabile, e il Dio stagionale, comparvero quindi solo successivamente (probabilmente intorno a settemila anni fa). La Grande Madre era venerata sotto la forma trinitaria di fanciulla, donna gravida e maga, tre figure femminili che venivano identificate con le tre fasi lunari mensili: luna crescente, piena e calante. La supremazia della Dea durò per molto tempo dopo la preistoria, e possiamo trovare una traccia della sua sovranità matrilineare, ad esempio nel:
1. MITO GRECO DI EDIPO. Dove il futuro re dovrà uccidere il vecchio padre Iolao e sposare la madre Giacasta per avere, per suo tramite, la propria legittimazione al regno.
La società matrilineare fu la logica conseguenza dell’adattamento umano all’ambiente, caratterizzato da una precisa distribuzione dei compiti. I maschi preparavano e partecipavano alle grandi cacce per assicurare la carne che doveva sostenere il gruppo durante il periodo invernale (mentre, per il resto dell’anno, le donne erano in grado di sopperire alle esigenze familiari, attraverso la raccolta di erbe, bacche e radici), inoltre essi erano chiamati a proteggere la pacifica espansione del gruppo, senza ricorrere ad alcun tipo di segregazione sessuale. La discendenza infatti non era vincolata ad una monospermia, ma libera espressione delle più ampie peculiarità nell’interesse collettivo.
La norma sociale di tale indirizzo, proprio in virtù della successione matrilineare, prevedeva la proprietà comune dei mezzi di produzione e la concezione del potere alla stregua di una responsabilità cooperativa. Ciò era possibile solo conferendo il massimo valore alle forze che reggevano la generazione, il sostentamento e la creazione, non soggiacendo alle seduzioni distruttive e personalistiche.
La società patriarcale, che cominciò a prendere il sopravvento attorno al terzo millennio a.C., era invece basata sul possesso, il controllo, l’individualismo accentratore e l’uso della Terra, e quindi della donna e dei figli, come potestà esclusiva e beneficio personale.
I denigratori di una tale visione del mondo dell’Antica Europa, si chiedono come, in mancanza di prove documentarie scritte, sia possibile suffragare l’esistenza di una società di questo tipo. Ci sono dati inoppugnabili:
2. ABBONDANZA DI FIGURE FEMMINILI. Che senso avrebbe questa loro produzione se la Dea non rivestisse un’importanza centrale?
3. ASSENZA COMPLETA DI FIGURE GUERRESCHE E DI DOMINIO MASCHILE. Laddove, invece, la Dea appare contornata da animali o aspetti della natura, o in parte animale lei stessa.
4. LUOGHI DI CULTO. Sono giunte fino a noi delle miniature scolpite di antichi luoghi di culto, dove gli spazi sacri erano sia espressioni della Dea, che luoghi di vita vissuta, limitrofi a laboratori di tessitura, ceramica, forni per il pane, ecc.
Le donne raccoglitrici, che conoscevano le erbe curative e psicotrope, e trasmisero agli uomini la loro conoscenza, conservano traccia delle loro mansioni anche nei testi sacri:
5. GN3.9 – ”Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiarsi…perciò prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò”.
Esse impararono a distinguere le piante venefiche che portavano la morte:
GN3.3 – “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”.
Da quelle allucinogene che invece ampliavano le facoltà della mente:
GN3.4/5 – “Voi non morirete affatto. Anzi, Dio sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male”.
Le società gilaniche si prefigurano come sistemi sociali equilibrati tra la componente maschile e quella femminile.
Secondo questa visione – conservata nell’Animismo dei popoli nativi – gli esseri umani e il loro ambiente naturale e sociale, sono parti integranti, tra loro collegate, del grande mistero della vita e della morte, per questo tutta la natura, emanazione dello Spirito, deve essere trattata con rispetto.
Il principio femminile non era però sacralizzato in modo autoreferenziale, l’aspetto dinamico e cooperativo che legava i due generi, era infatti profondamente sottolineato, anche nella produzione di statuette che recavano incisi gli attributi sessuali di entrambi.
Nel quinto millennio a.C., si cominciano a trovare testimonianze di un progressivo disgregamento delle antiche culture neolitiche, con chiare tracce di invasioni da parte di tribù di pastori guerrieri (kurgan), provenienti dalle steppe del nord-est europeo ed asiatico, legati al culto di dei guerrieri e vendicatori e all’uso delle armi. Di questi conflitti proto-storici, troviamo nuovamente traccia nella Bibbia:
6. GN4,2 – “Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo”
S’instaura gradualmente una fase di regressione e stagnazione culturale, durante questo periodo di caos crescente, e lo sviluppo della civiltà giunge a un punto morto. Ci vorranno altri duemila anni prima che la civiltà sumera ed egizia facciano la loro comparsa.
Gradualmente il dominio maschile, l’aggressività, l’asservimento delle donne, e degli uomini più miti, divennero la norma. Le rappresentazioni di dei guerrieri indo-europei, che cominciano a comparire soltanto dopo le invasioni Kurgan, sono astratte, definite esclusivamente attraverso l’effige delle loro armi, incise su roccia, stele e pietre.
Nel volgere di qualche millennio (tra il quattromila e il tremila a.C.), la figura della Dea madre subisce una profonda metamorfosi. Intanto diviene comprimaria tra altri dei maschili. Poi perde la sua deità, mantenendo però ancora la sua regalità (per regnare, infatti, un Dio doveva sposarla, così lei gli avrebbe trasmesso il potere) Nelle mitologie dei popoli che si sono succeduti sul territorio tra il Tigri e l’Eufrate, troviamo traccia di questi mutamenti:
7. SUMERI (Enuma Elish): prima di ogni altra cosa vi erano le acque primordiali cosmiche (il liquido amniotico?) e da esse scaturisce Nammu, la “madre iniziale, colei che ha dato la vita a tutte le altre divinità”.
ASSIRI: Nammu diviene Tiamat, la dea delle acque salate del mare (un femminile connesso con la luna e maree e la vita), che si unisce ad Apsu dio delle acque dolci, mescolando le loro acque. Generano molti figli, ma il padre insofferente vuole eliminarli, così Tiamat lo allontana (il tema del dio che muore e risorge) e regna con loro.
BABILONESI: poi però sembra cambiare umore, da buona diviene cattiva (un mostro metà serpente e metà animale, che comincia a partorire demoni). Marduk, suo figlio, uccide infine la madre-demone e crea il mondo nuovo. Egli è il re-dio dei popoli invasori, apportatori del culto solare che sovrasta quello lunare e lo relega nel mondo infero.
Comunque, anche se demonizzate, per qualche tempo le divinità femminili mantengono una parte del loro potere. Ad esempio Lilitu, nell’antica Mesopotamia, era il demone sensualissimo della lussuria che colpiva nel sonno gli uomini sposati provocando in loro desideri violenti (ottima scusa per giustificare qualsiasi abuso). Essa deve aver colpito l’immaginario ebraico di quattromila anni fa, se la ritroviamo a fianco di Adamo come sua prima moglie:
EBREI: dal demone babilonese Lilitu, introdussero Lilith come moglie di Adamo. Purtroppo una moglie indocile che aveva la pretesa inaudita di considerarsi pari al suo sposo (Gn1: creazione simultanea), fu così che i pii esegeti ebrei finirono per considerarla un demone incarnato, e la scacciarono nel deserto, preferendole la più docile Eva (Gn2: creazione differita)
Il risultato dell’incontro/scontro tra le due culture, provocò sia una devastazione fisica che un impoverimento culturale; le costruzioni simboliche che troviamo a fondamento e sostegno delle nuove strutture sociali, sono basate sulla legge del più forte e sul primato della struttura gerarchica. Tutto questo avviene attraverso una strategia di annientamento e di assorbimento ideologico o cooptazione dei simboli, ossia tramite l’appropriarsi, da parte dei dominatori, della simbologia dei dominati, completamente epurata e riadattata ai nuovi dominatori. Un esempio greco lo possiamo trovare nella trasformazione di Athena da antica dea-uccello a figura “militarizzata” nata dalla testa (quindi dall’ideologia) di Zeus. Come pure nelle infinite violenze sul femminile, perpetrate dallo stesso Zeus, atte ad affermare la propria autorità e statuto, all’interno di un modello ormai radicalmente mutato.
Tuttavia, credenze preistoriche non si sradicano così rapidamente, e non tutte le Dee finirono per diventare mogli di divinità indo-europee (es: Diana in Grecia, Brigit in Irlanda, Laima sul baltico, Iside in Egitto), alcune, di fatto, conservarono e continuarono ad esercitare di diritto il proprio potere, almeno nel cuore segreto delle credenze dei popoli. Troviamo un esempio di questa resilienza di fronte all’affermazione indo-europea, nel testo forse più ispirato di tutta la letteratura antica:
8. Apuleio, “l’Asino d’oro”, II secolo d.C.
Il primo romanzo latino, dove l’autore invoca Iside dagli abissi della propria miseria. Essa appare e pronuncia il seguente monologo: “Io, madre di tutte le cose, signora di tutti gli elementi, principio di tutte le generazioni nei secoli, la più grande dei numi, la regina dei Mani, la prima dei celesti, archetipo immutabile degli dei e delle dee, a voi concedo di governare col mio assenso le luminose volte del cielo, le salutari brezze del mare, i lacrimati silenzi degli inferi; io la cui potenza, unica se pur multiforme, tutto il mondo venera con riti diversi, con diversi nomi”.
Questi spunti di reviviscenza, nascevano probabilmente come compensazione di ciò che la religione ufficiale indoeuropea non offriva. Si praticavano allora culti segreti, religioni misteriche (eleusina, dionisiaca) per mantenere vivo il culto alla maniera antica. Più tardi, la Dispensatrice della vita e la Madre terra, collegata con l’acqua e le fonti sacre curative, si fusero col culto cristiano della Madonna. Ma è pur vero che altrove, colei che uccide e rigenera, che sovrintende all’energia ciclica della vita, la personificazione dell’inverno e la madre dei morti, fu trasformata in una strega della notte e della magia, seguace di Satana ai tempi dell’Inquisizione. La detronizzazione di questa Dea, la cui eredità fu raccolta da levatrici, profetesse e guaritrici, è segnata dal sangue. Le donne mandate a morte, dopo confessioni fasulle rese sotto tortura, furono più di otto milioni. Nel 1484, Innocenzo VIII, con bolla papale, denuncio la stregoneria come congiura organizzata dall’esercito del Diavolo contro il Sacro Impero Cristiano.
Ma nonostante ciò, i ricordi della Dea sopravvivono nel culto, nelle fiabe, nel folklore, nei riti, nei costumi e nella lingua di tutti i popoli europei.
La Dea, la Madre, la prima donna che ha fatto venire al mondo un popolo, ha anche dato le regole, affidandole alle sue creature perché seguissero, armonicamente e in sintonia con tutto il resto del creato, la via, il cammino da lei indicato, che avrebbe permesso all’umanità di proseguire nel migliore dei modi possibili, continuando l’opera di creazione.